La canzone dell'appartenenza - Giorgio Gaber


"Vorrei iniziare leggendovi due brani della 'Canzone dell'appartenenza' di Gaber, che molti conoscono:
'L'appartenenza non è un insieme casuale di persone, non è il consenso a un'apparente aggregazione / l'appartenenza è avere gli altri dentro di sè'.
Ma come avviene la realizzazione di questo (mi pare un miraggio) 'avere gli altri dentro di sè?
L'ultima frase della canzone dice: 'Sarei certo di cambiare la mia vita, se potessi cominciare a dire noi'

L'appartenenza è la sintesi dell'atteggiamento che l'uomo deve avere verso Dio; ed è un'evidenza naturale che permette il crearsi di questo punto di vista, il quale diventa poi così utile per la nostra memoria.
Se l'uomo non appartenesse a niente, sarebbe niente.
L'appartenenza implica naturalmente, almeno naturalmente, il fatto che un io, che non c'era, adesso c'è.
Se l'uomo non appartenesse a niente, nella sua autocoscienza l'immagine del nulla starebbe davanti a lui o dietro di lui, quando la memoria è focalizzata da altro, per un momento o per alcuni momenti.
Se non ci fosse la coscienza di una appartenenza, egli - se pensa, se riflette - sarebbe davanti al proprio niente"

E' un brano delle meditazioni, nell'annuale appuntamento degli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, con cui Mons. Luigi Giussani iniziava quelle del sabato pomeriggio, nell' anno 1999.
Il testo integrale è pubblicato nel volume "Dare la vita per l'opera di un Altro" (Bur Rizzoli, 2021)

'La canzone dell'appartenenza' citata dal sacerdote brianzolo era inserita in "Una idiozia conquistata a fatica", il teatro - canzone che Giorgio Gaber e Sandro Luporini misero in scena nella stagione 1997 / '98, praticamente il loro ultimo spettacolo, prima che Gaber ci lasciasse.

"Non appartenere a niente, vuol dire non esistere"
L'anarchico Sandro Luporini, nel libro "G. Vi racconto Gaber" (Mondadori, 2013), sembra confermare, anzi, conferma proprio, il racconto della genesi di questo brano, precedentemente commentato dal prete cattolico Giussani.
"Fu proprio da questa considerazione che io e Giorgio sentimmo quasi il dovere di definire cosa significasse più precisamente per noi la parola 'appartenenza'. (...)
Si trattava di passare dalla nozione astratta di misericordia a quella di un sentimento vero.
Insomma, la 'pietas' al posto della 'pietà'.
Sto diventando troppo cattolico?
Non è così, semmai posso essere diventato un pò più cristiano.
Lo so che questo brano è stato oggetto di confronti e discussioni tra i giovani di Comunione e Liberazione, ma se mi si dà del cattolico, mi viene in mente una chiesona enorme e rabbrividisco subito. (...)
La parola chiave è la Ragione.
Quella parolona lì, con la erre maiuscola, è forse la più grande nemica della Fede?
Io credo di no e persino qualche illuminista me lo conferma.
Intendiamoci, non ho mai creduto in un Dio che interagisce, premia e punisce, ma ricordo, che quando ragionavo con Giorgio, pur non essendo capace di trovare la sintesi in una sola parola, parlavo di una forza inspiegabile da cui scaturisce il tutto.
Lui non lo negava, solo che era disinteressato alla sua esistenza, perchè le uniche cose che gli importavano davvero erano la realtà, l'uomo e la ricerca di un suo miglioramento attraverso lo sviluppo continuo del pensiero.
Da atei credenti non ignoravamo però i pensatori religiosi"

A dir la verità, Gaber intuiva che il miglioramento del pensiero moderno incontrasse ostacoli evidenti:
"La nostra è una società adolescenziale, la gente non riesce più a diventare adulta e si compiace del proprio infantilismo.
C'è un'incapacità ad assumersi le proprie responsabilità, per gli anni che si hanno, per gli impegni da assolvere, per i doveri verso le persone che ci circondano.
Questo infantile disimpegno è davvero molto dannoso.
Culliamo il bambino che è dentro di noi e invece dovremmo deciderci di farlo crescere.
Insomma non siamo più capaci di essere adulti"

Siamo agli inizi degli anni '90, e Gaber, insiste:
"Questa è una società dove tutti vogliono sentirsi bambini e si comportano di conseguenza.
Rifiutano ogni responsabilità, pretendono di avere diritto ad ogni capriccio, ad ogni sciocchezza, pur di sentirsi 'autentici.
Per me questo problema è reale e grave perchè essere bambino da adulti, vuol dire vivere tutta la vita come una ripetizione di fatti e personaggi conosciuti nell'infanzia, non poter conoscere la realtà, nè prendersi la proprie responsabilità nei suoi confronti"

Insomma : non avere il coraggio di dire "io". 

Riflessioni di un ateo, alle quali vengono incontro quelle di don Giussani, nella presentazione della 'Canzone dell'appartenenza', che lo stesso scrisse sul libretto del cd gaberiano "La mia generazione ha perso".
"Il finale della canzone accenna l'alba di una risposta.
'Sarei certo di cambiare la mia vita, se potessi cominciare a dire noi'
Duemila anni fa è risuonato l'annuncio che Dio è diventato uno di noi - l'ebreo Gesù di Nazareth - per farci vivere bene.
E' l'amicizia con Lui a rendere l'uomo capace di realizzarsi nel profondo di una comunione, ciò che compie il desiderio che la genialità poetica di Gaber ha fissato in poche umanissime parole:
'Sarei certo di cambiare la mia vita, se potessi cominciare a dire noi'.
Grazie " 



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