Fiume Sand Creek - Fabrizio De André

" Almeno coloro che hanno il dono della fede dovrebbero essere consapevoli che, come tutto ciò che di inquietante c'è in ogni uomo ( e che rende così sanguinosa la sua storia ), anche la chiusura al diverso e la superbia del credersi migliori non sono che aspetti fra i tanti dell'insondabile, ma così reale, dramma del peccato. Se tutti siamo tentati di razzismo, è perchè tutti siamo bisognosi di redenzione."
Così riflette lo scrittore e saggista Vittorio Messori, un intellettuale che da decenni scandaglia la Storia umana e i suoi avvenimenti più o meno tragici alla luce della sua esperienza di convertito al cattolicesimo.

Fabrizio De André, era un tipo di anarchico "sentimentale", un "puro" di origini borghesi, un poeta essenzialmente, sempre a disagio nel suo stesso ambiente familiare, che ha spesso trovato ispirazione nelle sue canzoni in storie di emarginati, di perdenti sia nel meccanismo economico che regge il mondo del profitto, sia nelle guerre e nei genocidi organizzati da predomini territoriali e  con motivazioni religiose.

Nel 1981, dopo la sua disavventura del rapimento subito in Sardegna ( insieme alla sua compagna Dori Ghezzi fu tenuto prigioniero da una banda del luogo per diverse settimane ), l'artista richiama alla collaborazione ( dopo la realizzazione dell'album "Rimini" ) Massimo Bubola, per il suo ritorno alla musica.
Viene così pubblicato l'album " L'indiano " : a dir la verità, il disco, non ha un vero e proprio titolo ma sulla copertina campeggia il disegno  di un fiero pellerossa americano a cavallo.

" Gli indiani di ieri e i sardi di oggi sono due realtà lontane solo apparentemente, perchè sono due popoli emarginati e autoctoni. Gli indiani sterminati dal generale Custer, chiusi nelle riserve, e i sardi cacciati sui monti dai cartaginesi, fatti schiavi dai romani, colonizzati poi.
Le analogie tra le due civiltà sono tante."
Sono parole dello stesso De André rilasciate a ridosso dell' uscita del disco al settimanale "Famiglia Cristiana".
Ecco, il poeta che racconta le epopee dei vinti, che non fa distinzione fra popoli di culture diverse ma che vuole semplicemente raccontare la violenza che li ha oppressi, alla ricerca di un riscatto.
In un'intervista rilasciata al quotidiano "Il Manifesto", il 23 agosto 1981 il cantautore afferma:
"Quello sardo è uno dei popoli autoctoni che lottano per la loro indipendenza. (...)
L'unico messaggio che ho mandato attraverso le mie canzoni è quello di rivolgerci in qualche maniera alla "emarginazione". Se ne facciamo un problema metropolitano, ti parlo dei sottoproletari, cosa di cui il vostro giornale non si è abbastanza occupato (caspita, stava rispondendo al "Manifesto"! Un pensiero critico alla sinistra più integrista, direi "pasoliniano" n.d.r.), mentre noi anarchici ce ne siamo sempre occupati, e ve ne faccio una colpa.
Lo stesso vale per le culture autoctone. Io credo che attraverso il recupero di questo tipo di cultura si possa individuare la possibilità di vivere meglio."

" Fiume Sand Creek " racconta di un massacro di pellerossa da parte delle Giubbe Blu, nel 1864.
I militari guidati dal col. John Chivington, durante la notte attaccarono un villaggio, in Colorado, di 600 Nativi, uccidendone duecento fra donne, vecchi e bambini.
Ed è attraverso gli occhi di un bambino che viene evocata la strage.
La violenza raccontata dal più debole, dal più indifeso, dal più innocente.
E' una potente, coinvolgente, ballata, splendidamente arrangiata da Mark Harris, e quel bambino rappresenta tutti i bambini vittime delle guerre e delle violenze che nessuno riesce a fermare.

Ecco perché le canzoni sono importanti, per aiutare a sviluppare la coscienza per un mondo più umano, come lo stesso De André affermerà in una intervista a Gino Castaldo, nel 1984:
" La canzone è un miracolo, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci, a cui del resto, non ho avuto la fortuna di assistere. Come si fa altrimenti a spiegare un' emozione, soprattutto se poi la devi comunicare?"
E quasi come a seguire la citazione iniziale di Vittorio Messori, in una intervista a "L'unione Sarda" nel 1991, alla domanda se avesse una spiritualità, il poeta genovese rispose:
"La spiritualità ha a che fare con la religiosità. Ci sono molti modi di esprimerla, io per esempio mi sono sempre sentito parte di un tutto, un piccolo tassello - certamente non quello centrale - di un progetto universale.
Tutto sommato sono vicino all'animismo: vedo l'anima nei sassi, ancorché siano stati sfiorati da qualche elemento vivo. Questo è il mio modo di essere religioso.
Ma si, forse sono un pellerossa"




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